Dati e “presi” … dal mito ad un osservatorio sulla povertà sanitaria

Ornella Giambalvo

Dipartimento di Scienze Economiche Aziendali e Statistiche

Università degli Studi di Palermo

 

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità la salute è uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente l’assenza di malattia o infermità.

L’Unione Europea emana, periodicamente, documenti, linee guida e direttive, valide per ogni Stato membro, per integrare, sostenere e aggiungere valore alle politiche del Welfare per migliorare la salute dei cittadini e ridurre le disuguaglianze in termini di salute. Nei documenti ci si riferisce anche alla dotazione, in ogni territorio, delle stesse strutture di cura, degli stessi protocolli e della stessa formazione del personale medico-sanitario. L’idea di fondo del programma è che il mantenimento delle persone in buona salute generi effetti positivi sul Paese, fra cui la riduzione delle disuguaglianze in termini di salute e il più ambizioso obiettivo della “crescita inclusiva” di tutti i cittadini.

l’Istat, il Censis, la Demoskopica, la Doxa per il Banco Farmaceutico Onlus, l’Agenzia italiana del Farmaco (Aifa), Cittadinanzattiva, l’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e delle malattie della povertà (INMP), l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) e altre organizzazioni periodicamente pubblicano i risultati di indagini campionarie ad hoc dalle quali emerge un quadro drammatico della sanità e dell’accesso alle cure da parte dei cittadini.

In tutti i rapporti si parla sempre più di povertà sanitaria, un termine che non intende indicare un deficit di capacità e/o di risorse terapeutiche del nostro sistema sanitario, quanto la difficoltà di accesso a tali risorse da parte dei cittadini economicamente e socialmente più svantaggiati, specie per le spese a loro carico. È una espressione, quindi, che serve ad indicare il deficit di salute e l’incapacità di ottenere cure adeguate da parte di chi è materialmente povero (Povertà Sanitaria e Donazione Farmaci RAPPORTO 2014. Banco Farmaceutico. Fondazione ONLUS). Leggendo insieme i risultati delle indagini si può sintetizzare che la crescente limitata disponibilità economica ha escluso dall’accesso alle cure 11 milioni di famiglie residenti in Italia e non solo stranieri. Le famiglie italiane hanno dovuto rinunciare complessivamente a 6,9 milioni di prestazioni mediche anche private (pari al 31% delle famiglie). Una famiglia su dieci non è in grado di sostenere economicamente le cure. Il 47,1% dei residenti in Italia è un “paziente mancato”: 2,4 milioni di italiani hanno dichiarato l’impossibilità di occuparsi della propria salute perché “curarsi costa troppo”. E non si tratta solo di stranieri o di “migranti” o di spese straordinarie. A farne le “spese” sono soprattutto i cittadini più vulnerabili: i minori (sottratti alle cure pediatriche, alle vaccinazioni e alle cure odontoiatriche) e gli anziani lasciati privi di assistenza.

Testate giornalistiche e media – a varie riprese – hanno invaso il campo dell’informazione con dati che evidenziano un trend crescente di suicidi (motivati, pare, dalla perdita di lavoro) o un numero più o meno imprecisato di persone anziane che ogni anno devono andare all’estero per potersi curare (circa quattrocento mila all’anno). Aumenta la quota delle famiglie dentro la soglia di povertà (ogni anno 300.000 famiglie) e aumenta tanto più al Sud quanto meno al Nord (in Sicilia le famiglie povere che non possono permettersi le cure sono circa 69.000 in Piemonte poco meno di 5.000). Si rinuncia alla salute per impossibilità a sostenere le spese per il ticket dei farmaci e per le prestazioni specialistiche oltre che per esami diagnostici. Le disuguaglianze di salute costituiscono un fattore di inefficienza, perché rappresentano un freno allo sviluppo sociale ed economico del Paese, con un impatto complessivo stimato intorno al 10% del Pil: la zona più penalizzata è il Sud dove ci sono – stante i risultati delle indagini – più poveri “sanitari”. Il differenziale Nord-Sud si nota anche sullo screening mammografico e su altre campagne di prevenzione. La terapia del dolore al Nord si pratica nel 60% dei centri sanitari pubblici, al Sud solo nel 12%. Al Nord è più diffuso, rispetto al Sud, l’uso di farmaci innovativi per patologie rare.

La rilevanza di questi risultati è evidente. Il valore economico e sociale di dati di questo genere è indubbio. Ma quale è il fondamento metodologico? Ci si riferisce a periodi di osservazione diversi, a diverse tipologie di popolazioni indagate (sebbene la popolazione obiettivo sia la stessa), si conosce poco dei piani di campionamento adottati, delle dimensioni campionarie, dei tassi di risposta, del metodo di rilevazione, dello strumento di misura, ecc.

Pur di notevole impatto mediatico a nulla servono senza un impianto metodologico condiviso. L’operazione di sintesi siffatta, per un quadro il più possibile esaustivo del fenomeno, perde di significato se non si identificano metodologie di produzione raccolta dei dati comuni: la “carenza di salute” e il “desiderio di salute” sono variabili latenti, e pertanto richiedono il ricorso ad indicatori, riproducibili e flessibili, capaci di misurarle, accertarne le evoluzioni temporali per intraprendere rapidamente ed in modo mirato azioni di risposta. Il quadro che i risultati delle indagini citate forniscono inoltre, non è esaustivo, anzi risulta fortemente carente in alcune informazioni cruciali oltre che in alcune indicazioni di metodo.

Se si vuole intervenire sul tema, non basta la semplice conoscenza del fenomeno (obiettivo parzialmente raggiunto dalle singole indagini ad hoc), piuttosto servirebbe una programmazione sanitaria più lungimirante che riesca a fare emergere le eccellenze evidenziabili soprattutto nella sanità pubblica, facendole diventare buone prassi per tutte le Regioni e per tutti i cittadini.

E quest’ultimo obiettivo passa per l’azione conoscitiva condivisa ad ampio raggio. Sarebbe pertanto auspicabile un osservatorio dei nuovi bisogni sanitari dei cittadini per cogliere e quantificare nuovi ed emergenti difficoltà di famiglie che altrimenti rimangono inespresse e sconosciute per l’eccessiva specificità e frammentarietà delle rilevazioni ad hoc.

Così si trasformerebbero i risultati “presi” dalle indagini ad hoc in “dati” fruibili per azioni programmatiche di grande valenza sociale e politica. Il valore del “dato” statistico per previsioni e programmazione allora potrebbe prendere il posto del “preso” che alimenta solo miti e racconti a vario titolo ripresi dai media.

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