Intervista al Presidente dell’ISTAT, Prof.  Gian Carlo Blangiardo sul Rapporto 2019

 

 

di Pietro Iaquinta

 

Il 2018 ha rappresentato per l’Italia un anno di importanti cambiamenti rispetto alla situazione del Paese in campo economico e sociale, e con una particolare accentuazione di alcuni fattori critici proprio sul fronte demografico.

 

D.: Qual è la fotografia che viene fuori da questa edizione del Rapporto sulla Situazione del Paese?

R.: Partendo dall’economia, pur con le evidenti e ben note difficoltà che contraddistinguono la realtà del nostro tempo, per altro accentuate dal clima che si va vivendo sul piano internazionale, nel resoconto del Rapporto Istat 2019 l’Italia mostra un quadro che associa elementi di debolezza a segnali che fanno tuttavia intendere, oltre che sperare, come la partita sia aperta e ancora tutta da giocare.

Se infatti è innegabile che non riusciremo a confermare nel 2019 la, pur modesta, crescita del Pil registrata nel 2018 (+0,9%), è anche vero che la svolta recessiva avviata nel secondo semestre dello scorso anno sembra essere stata quanto meno arginata. La dinamica del primo trimestre 2019 lascia intendere, seppur con qualche prospettiva altalenante, un risultato leggermente positivo (+0,3%) su base annua.

 

D.: Recentemente l’occupazione sta’ risalendo una china storicamente drammatica per il nostro Paese, i numeri cosa ci dicono?

R.: Il fronte dell’occupazione è quello che più di ogni altro alimenta le aspettative per un nuovo corso. Il dato del 2018 ha mostrato, almeno sul piano quantitativo, un completo recupero del totale di occupati dell’epoca pre-crisi. Lo stesso tasso di disoccupazione sembra essere sceso, secondo il dato di maggio 2019, sotto la soglia psicologica del 10%. Certo, se passiamo a considerare la “qualità” dell’occupazione vediamo che ci sono ancora elementi critici che persistono – precarietà, tempo determinato, part time involontario, ecc. – ma i dati mostrano come vi siano anche importanti esempi e settori virtuosi, il cui sviluppo potrebbe per l’appunto aiutare a contenere anche questi nodi problematici nel mercato del lavoro italiano.

 

D.: Gli aspetti demografici che mette in evidenza il Rapporto, invece, non lasciano presagire nulla di buono per il futuro?

R.: In effetti, diversamente dalla partita che si gioca sul piano economico, quella sul terreno della demografia fa intendere un risultato ben più difficile da volgere a favore. Viviamo da quattro anni un calo di popolazione che complessivamente ha ridotto di circa 400 mila unità il numero di residenti. Dietro a ciò c’è il progressivo crollo della frequenza di nascite che, da sei anni a questa parte, segna regolarmente ogni volta un nuovo minimo assoluto nella storia del paese. Avere oggigiorno un saldo negativo di circa 200 mila unità non è certo un segnale di vivacità demografica, se poi mettiamo in conto che le prospettive indicano come tra qualche decennio tale deficit potrà persino risultare doppio (400 mila), è facile rendersi conto quanto sia difficile, e quanto lo sarà in futuro, mantenere alcuni equilibri nel sistema paese. Soprattutto se si tiene conto che non è solo l’aspetto quantitativo a dare spunti di preoccupazione, lo è ancor di più la continua espansione della quota – e dello stesso numero assoluto – di popolazione anziana. Una crescita che è concomitante ad una forte riduzione della quota di giovani. Mentre gli ultra65enni, oggi nell’ordine del 23% dei residenti, potrebbero accrescersi tra 9 e 14 punti percentuali nell’arco di un trentennio, le previsioni segnalano che i giovani 0-14enni potrebbero mantenersi fermi al livello attuale (13,5%) o persino scendere sino al 10,2%.

 

D.: Sul fronte migrazioni, invece, cosa raccontano i numeri?

R.: Per anni la crescita della popolazione residente è stata garantita proprio da questa componente, ma anch’essa appare da qualche tempo meno vivace e comunque diversa dal recente passato. La forza attrattiva del mercato del lavoro si è ridotta e i flussi di questi ultimi anni sono dovuti, da un lato, a motivazioni di ordine familiare; dall’altro alla formale registrazione delle provenienze legate agli sbarchi e alle corrispondenti richieste di asilo e protezione. Basti ricordare che nel bilancio del 2018 l’aumento di circa 110 mila residenti stranieri è dovuto per quasi il 20% proprio a un incremento delle presenze presso le così dette “convivenze anagrafiche”.

Sul fronte della mobilità internazionale non dimentichiamo poi che l’Italia continua ad essere sempre più anche terra di emigrazione. Negli ultimi 10 anni oltre 200 mila connazionali hanno lasciato il nostro paese per cercare lavoro all’estero, e nella maggior parte dei casi si è trattato di giovani con elevati livelli di istruzione. Mettiamo pure in conto che alcuni di essi erano, a loro volta, ex stranieri che emigravano dopo aver avuto la cittadinanza italiana, però è innegabile che, almeno dal 2011, la propensione degli italiani a lasciare l’Italia abbia subito un significativo e preoccupante impulso alla crescita. È un ricco capitale umano che viene di fatto regalato alle economie di paesi concorrenti.

 

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