La crescita dell’astensione e l’indifferenza dei partiti

di Andrea Vannucci *

L’astensione è il grande fenomeno politico degli ultimi decenni nelle democrazie sviluppate, in Italia come in tutta Europa. I partiti già affermati non si impegnano su questo fronte, e fanno poco o nulla per sostenere la partecipazione; forse anche perché -conti alla mano- gli conviene lasciare che i votanti diminuiscano?

(questo articolo riprende e sviluppa, su dati aggiornati, alcune analisi già pubblicate dall’autore nel 2016 su LibertàEgualeMagazine ed EumetraMonterosa)

La partecipazione al voto è progressivamente calata in tutta Europa, soprattutto a partire dai primi anni ’90. Fra i paesi membri originari dell’Unione a 12 (che costituiscono una valida base di confronto per la loro struttura istituzionale e politica più omogenea nel periodo considerato), neanche uno oggi mostra tassi di partecipazione alle elezioni parlamentari confrontabili con quelli che si registravano negli anni ‘60-70.

Con le uniche significative eccezioni di Belgio (-5%) e Danimarca (-7%), le quote medie di partecipazione (calcolate come percentuale di elettori effettivi sulla base degli aventi diritto) sono ovunque cadute del 10-20% o più.

Le variazioni più impressionanti sono quelle relative a Francia (-25%) e Italia (-27%), che sono anche rispettivamente seconda e terza nazione per dimensione dell’elettorato, con oltre 50 milioni di votanti potenziali ciascuna. La media (ponderata) per l’intera area dei 12 paesi, che raggruppa oggi circa 300 milioni di aventi diritto al voto, mostra una partecipazione che alle ultime elezioni si attesta ormai al 65%, contro l’81% che si registrava quarant’anni fa.

In estrema sintesi, se negli anni ’60 votavano oltre otto europei ogni dieci aventi diritto, oggi a votare sono meno di due su tre.

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Concentrando l’attenzione sui 5 paesi maggiori, si osserva come l’astensionismo si è sviluppato in tempi e in modi diversi nei vari paesi:

  • in Germania, la partecipazione al voto inizia a calare in modo evidente già negli anni ’80 e raggiunge il punto più basso nel 2009;
  • in Italia, Francia e Regno Unito il calo si manifesta nel decennio successivo, con un crollo ben visibile a cavallo del 2000;
  • in Spagna, la partecipazione cala più bruscamente a metà degli anni 2000;
  • dopo il 2010 i tassi di partecipazione si stabilizzano sui livelli più bassi ormai raggiunti in Germania, Spagna e Regno Unito, ma il calo prosegue invece in Francia e in Italia; per la Francia, in particolare, la fuga dalle urne sembra proseguire senza sosta, con meno del 40% degli aventi diritto ad aver votato alle politiche del 2017.

Sorprendentemente (o forse no?) la questione dell’astensione continua a non essere affrontata con determinazione dai partiti politici già affermati; in tutta Europa, i grandi partiti tradizionali hanno fatto poco o niente per combattere l’astensionismo in generale, e solo occasionalmente -e con poca convinzione-  hanno messo in campo proposte che si rivolgessero agli elettori indecisi o riluttanti, perfino quando era chiaro che nuovi movimenti politici crescevano guadagnando consensi nell’area della disaffezione.

Perché mai i partiti consolidati insistono a fare riferimento ai soli elettori votanti e non invece a chi ha disertato le urne? Come può una simile strategia apparire conveniente?

I motivi per cui i partiti già affermati non si impegnano per combattere l’astensionismo sono diversi. In primo luogo, l’orientamento di un elettore riluttante e disaffezionato è, per definizione, quantomeno critico nei confronti dell’establishment, e perciò anche meno prevedibile perfino quando lo si riesca a recuperare. Ogni azione tesa a rimotivare elettori scontenti, che in passato abbiano rinunciato al voto, presenta più rischi che opportunità per le organizzazioni già posizionate nell’agone politico. E’ più che verosimile che le energie investite in costose politiche atte a promuovere la partecipazione si rivelino un boomerang per qualsiasi partito che sia già presente in parlamento da tempo.

Ma perfino ove un partito ritenesse di avere buone chanches di recuperare voti per la propria insegna, comunque l’opzione di rivolgersi agli astensionisti può risultare poco attraente se valutata in termini di costi e benefici.

Proviamo a fare due conti e sviluppare un modello che dia forma matematica alla valutazione che, più o meno espressamente, viene svolta da chi deve investire risorse limitate in una strategia di campagna elettorale. Assumiamo come prima ipotesi che lo sforzo (o detto in altri termini, il costo) necessario per riguadagnare il consenso di un elettore che ha smesso di votare sia circa equivalente a quello sufficiente a portare al proprio partito il voto di un elettore qualsiasi, orientato a votare per un altro partito vicino o avversario. Questa ipotesi non è molto lontana dalla realtà, se si considera che la motivazione alla partecipazione è più difficile da costruire rispetto alla preferenza per schieramenti diversi.

Prendiamo quindi come riferimento uno scenario di partenza paragonabile a quello che si presentava in Italia nel 2014 dal punto di vista del Partito Democratico, che all’epoca era sostenuto dalla maggioranza relativa degli elettori votanti: elettorato potenziale pari a circa 50 milioni di cittadini, astensionismo al 40%, quota di consenso sui voti validi pari al 32% per “MioPartito”, al 15% per “MieiAlleati”, al 26% per “MieiAvversari”, più un 27% sparso a favore di “Altri”.

Definiamo, infine, un indicatore che misuri la “Forza” politica che avrà “MioPartito” in base alle percentuali di consenso che potrebbe ottenere sul totale dei voti validi: la “Forza” sarà pari al rapporto fra i voti presi da “MioPartito” rispetto ai voti presi dagli altri, siano questi “MieiAlleati” oppure “MieiAvversari”.

Sviluppiamo quindi i calcoli per valutare, a partire dalla situazione iniziale che indichiamo come “caso base”, di quanto varierebbe la “Forza” di “MioPartito” ove questo riesca ad incrementare la propria base di consenso con 100mila voti prendendoli, caso per caso, da tre possibili diversi bacini di elettorato potenziale: Astensione, sostenitori di “MieiAlleati”, sostenitori di “MieiAvversari”. I risultati dei calcoli sono esposti nella tabella seguente:

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Quindi, attuando con successo una strategia politica che porti a guadagnare a MioPartito 100mila nuovi voti direttamente dall’astensionismo (prima colonna), la percentuale di voti validi a suo favore salirebbe a 32,23%, mentre quella a favore dei MieiAlleati calerebbe a 14,95%, e quella dei MieiAvversari a 25,91%. Pertanto, l’incremento relativo della Forza per MioPartito sarebbe di +0,71% rispetto a tutti gli altri, e di +1,04% rispetto ai MieiAvversari.

Per contro, una strategia alternativa che riuscisse a prendere sempre 100mila voti, sottraendoli però a quelli dei miei avversari (seconda colonna), darà risultati ben più significativi: il risultato finale per MioPartito balzerebbe al 32,33% mentre quello dei MieiAvversari calerebbe a 25,67%, con astensione e altri risultati invariati. L’incremento relativo di Forza risulta allora pari a +1,04% in generale, e +2,35% rispetto ai MieiAvversari. Questa azione, d’altra parte, porta anche un beneficio ai MieiAlleati, con un incremento di Forza per la coalizione nel suo complesso valutabile in +2,02%.

Ma la strategia di gran lunga più profittevole -ed evidentemente assai più facile da attuare- è quella di cercare di sottrarre voti direttamente ai partiti più simili, di norma quelli già alleati (terza colonna). Se MioPartito riesce a prendere 100mila voti fra quelli prima destinati a MieiAlleati, l’incremento relativo di Forza che otterrà sarà sempre pari +1,04%, sia in generale che rispetto ai MieiAvversari: lo stesso incremento che MioPartito avrebbe ottenuto guadagnando lo stesso numero di consensi nell’area dell’astensione.

Considerato che lavorare per convincere un elettore sfiduciato è più arduo e più rischioso, è decisamente meglio concentrarsi sugli elettori già fedeli alle urne, preferibilmente quelli che oggi sostengono partiti “vicini”, e lasciare che a combattere l’astensionismo sia qualcun altro.

E questo non è tutto: sviluppando gli stessi calcoli a partire da una base di astensionismo più alta (50% invece di 40%), gli impatti di tutte le possibili strategie vengono amplificati in proporzione, essendo i rapporti di forza tutti ricalcolati su basi più ridotte (v. tabella seguente).

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Questo indica in modo inequivocabile come, a parità di opzioni strategiche, per tutti i partiti è comunque preferibile partire da un’astensione elevata piuttosto che bassa. In effetti, tanto più contenuta è la quota di elettori che si reca alle urne, tanto più “efficace” sarà per qualsiasi partito investire per guadagnare consensi. Più alta è l’astensione, più facile diventa per i partiti politici raccogliere i benefici delle loro strategie di posizionamento e mobilitazione del consenso.

Dal punto di vista di uno stratega politico accorto, sarà sempre preferibile avere pochi interlocutori da convincere. Molto meglio e molto più facile giocare alla Democrazia in pochi, lasciando che gli elettori “schizzinosi” stiano a casa loro!

 

* Andrea Vannucci

Esperto di Marketing, statistico-demografo, è autore di diversi saggi e libri su metodologie demoscopiche, analisi di mercato e marketing politico, fra cui per la collana AREL-Il Mulino: “L’Elettore Sconosciuto” (con G.Calvi, 1995) e “L’Elettore Difficile” (con N. Pagnoncelli, 2006), e una serie di articoli per LibertàEguale, QdRMagazine, EumetraMonterosa e IlRiformista (2013-2016).

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