Giuseppe Arbia
Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma
Qualunque operazione compiamo nel nostro agire quotidiano, che si tratti di un acquisto, dell’obliterazione di un biglietto della metropolitana di un prelievo bancario o semplicemente una visita ad un sito web o un like posto su una fotografia, lascia, al di la’ delle nostre intenzioni, un’indelebile traccia delle nostre attività e delle nostre opinioni. D’altra parte, ogni giorno, per prendere le nostre decisioni, facciamo di continuo ricorso a dati registrati da altri, ad esempio per la scelta di un viaggio, per un investimento finanziario, per l’acquisto di un immobile, per scegliere un ristorante o un film da vedere.
In questo non c’e’ nulla di nuovo: per secoli, infatti, l’umanità ha preso le proprie decisioni sulla base delle informazioni disponibili, tuttavia, mai prima d’ora esse ci sono giunte con tale ritmo, varietà e volume.
Tutto questo enorme flusso di dati consiste in numeri, testi, immagini, suoni, video ed altri dati, i quali stanno modificando radicalmente il modo in cui prendiamo le nostre decisioni come individui, come aziende, come istituzioni pubbliche e come società in tutti le sfere di azione. Il termine con il quale ci riferiamo a tale fenomeno e’ ormai diventato di uso comune: questi sono i Big Data.
La rivoluzione dei Big Data rappresenta un’esplosione di raccolta e diffusione di dati che investe tutti i settori della societa’ umana e tutti i ricercatori nei vari settori scientifici sono coscienti della necessita’ di gestire tale esplosione combinando gli strumenti offerti dalla statistica, la probabilita’, la matematica, l’ingegneria computazionale e l’informatica.
L’enorme mole di dati prodotta ed immagazzinata porta senza dubbio con sé enormi potenzialità e vantaggi in termini di una maggiore efficacia e tempestivita’ delle scelte aumentando da un lato la competitivita’ delle imprese che ne sanno fare un uso appropriato e dall’altro l’efficienza delle nostre scelte individuali. Tuttavia, solleva anche importanti questioni etiche e giuridiche legate all’uso improprio che di essa può esserne fatto.
E’ di questo argomento che in particolare intendiamo occuparci in questo articolo.
Proviamo ad immaginare cosa succederebbe, se tutti i dati prodotti dagli oltre 7 miliardi di utenti di internet nel mondo, venissero riportati in uno schema unico, incrociando fonti diverse utilizzando sofisticate tecniche data di data-mining e di classificazione. Quello che ne conseguirebbe e’ la possibilità di costruire un profilo accuratissimo di ciascun individuo e, da cio’, il potere di interferire pesantemente nelle sue scelte in ogni campo. Per la verità questo è quanto già accade oggi nel campo del marketing digitale e di cio’ ne siamo tutti perfettamente coscienti quando, ad esempio, utilizziamo il servizio Amazon che ci suggerisce di acquistare un libro simile a quelli gia’ acquistati in precedenza, o dalle piattaforme Facebook e Linkedin, quando ci suggeriscono persone che potremmo conoscere o, ancora, dai servizi di Booking, Expedia o Tripadvisor quando ci segnalano viaggi che potrebbero essere di nostro interesse sulla base delle nostre scelte passate. Tuttavia, se una tale metodologia venisse utilizzata per interferire anche sulle scelte politiche e sulla vita democratica, essa potrebbe costituire un serissimo pericolo.
Appare evidente che chi oggi e’ in grado di raccogliere e gestire tutta la ricchezza dei Big Data detiene un enorme potere: quello che possiamo a buona ragione denominare il Sesto Potere.
Introducendo tale locuzione intendiamo qui fare riferimento alla teoria della separazione dei poteri, introdotta dal barone di Montesquieu il quale, nel suo saggio Lo spirito delle leggi pubblicato nel 1748, individuava tre funzioni distinte in uno Stato libero e nell’attribuzione ad esse di tre distinti poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo ed il potere giudiziario. Il primo e’ preposto a promulgare le leggi, il secondo a farle applicare e il terzo a farle rispettare. Il principio di Montesquieu identifica nella separazione ed indipendenza tra i tre poteri il principio di base di una sana democrazia.
Nel linguaggio comune, a tale classificazione dei poteri si sono aggiunti nei secoli successivi altri due poteri. Il primo di questi e’ il cosiddetto Quarto Potere, un termine utilizzato dal deputato Sir Edmund Burke nel corso di una seduta del parlamento Inglese nel 1787, riferendosi all’importante ruolo svolto dalla stampa al fine di garantire la azione democratica. Rivolgendosi ai cronisti presenti in aula, Burke grido’: “Voi siete il quarto potere!”. Secondo l’interpretazione di Burke, infatti, la stampa esercita la sua importante funzione di formazione dell’opinione pubblica solo se rimane nettamente separata dagli altri tre poteri costitutivi dello Stato. Il termine “Quarto Potere” e’ stato, in effetti, reso popolare in Italia dal titolo italiano di un celebre film del 1941, diretto ed interpretato da Orson Welles, il quale nella sua versione originaria era, invece, intitolato Citizen Kane. Il Quinto Potere, invece, è un termine apparso per la prima volta su un giornale underground americano negli anni ’60 riferendosi ai mezzi di comunicazione radiotelevisiva come strumento di diffusione delle notizie, ma anche di possibile manipolazione della pubblica opinione. Anche tale locuzione deve la sua popolarità in Italia ad un film: quello diretto da Sidney Lumet nel 1976 ed originariamente intitolato Network.
Abbiamo di continuo esempi dei pericoli nei quali si incorre quando stampa e radiotelevisione non siano sufficientemente indipendenti dal potere politico ed al contrario ad esso asserviti in regimi totalitari. Solo per fare un esempio, data la sua importanza, l’indipendenza della stampa e della radiotelevisione è un elemento fondamentale nel calcolo dell’indice della democrazia calcolato dall’Economist rispetto al quale l’Italia nel 2017 figurava al 21-esimo posto nella categoria di paesi denominati “Democrazie imperfette”.
Anche il Sesto, come gli altri cinque poteri citati, esercita un’importante funzione di equilibrio democratico favorendo la trasparenza e la diffusione di informazioni. Tuttavia anche per esso deve valere il requisito di Montesqieu di indipendenza, pena un pericoloso squilibrio della vita democratica. A ben vedere, questo Sesto Potere è persino piu’ subdolo e pervasivo del quarto e del quinto. Infatti, i detentori dei mezzi di comunicazione, quali la stampa e la televisione sono maggiormente identificabili cosicché, in qualche modo, si possa pensare di poter eludere il potere che essi detengono censurandone i contenuti. Al contrario è impensabile sottrarsi al potere dei Big Data in quanto i suoi detentori sono maggiormente occulti e difficilmente identificabili.
I rischi connessi all’uso improprio dei Big Data sono stati evidenziati in maniera paradigmatica nel caso che ha recentemente travolto la societa’ di marketing online statunitense Cambridge Analytica.
La storia e’ nota. Nella primavera del 2018, le testate Guardian e New York Times hanno pubblicato una serie di articoli nei quali sostenevano che l’azienda Cambridge Analytica avrebbe utilizzato un’enorme quantità di dati per condizionare sia il referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea (Brexit) che la campagna presidenziale statunitense del 2016. A seguito dello scandalo prodotto da tale notizia, la società ha dichiarato la bancarotta nel maggio del medesimo anno.
Prima dello scandalo, Cambridge Analytica era una società specializzata nel raccogliere dai social network dati relativi agli utenti al fine di crearne, attraverso procedure statistiche avanzate, un “profilo psicometrico” per sviluppare un sistema di “microtargeting comportamentale” che poteva essere usato per creare messaggi pubblicitari personalizzati facenti leva sui gusti di ciascun individuo. Il creatore di questi algoritmi e’ un data scientist polacco di nome Michal Kosinski, ex-studente di psicometria all’Universita’ di Cambridge ed attualmente Assistant Professor alla Stanford Graduate School of Business. Tramite gli algoritmi da lui sviluppati, Kosinski ritiene che sia possibile predire la personalità di un soggetto analizzando solo 10 dei suoi “Mi piace”. Sempre secondo il data scientist ne basterebbero 70 per saperne più di quello che sanno di lui i suoi amici, 150 per conoscerlo meglio della sua famiglia e 300 per superare la conoscenza del partner. Con quantità superiori sarebbe possibile conoscere del soggetto più di quanto ne sappia egli stesso!
Secondo Guardian e New York Times, le informazioni detenute da Cambridge Analytica sarebbero state in passato combinate con quelle provenienti da un’applicazione online chiamata thisisyourdigitallife alla quale circa 270mila utenti di Facebook si sarebbero collegati per ricevere una descrizione dettagliata del proprio profilo psicologico personale in cambio di informazioni relative alla propria persona e (tramite consenso) a propri amici. L’iniziativa fu presto bloccata da Facebook perché giudicata troppo invasiva della privacy, ma in quel momento l’applicazione aveva già raccolto dati relativi a 50 milioni di utenti in tutto il mondo. Se comprovata, la condivisione di tali dati con Cambridge Analytica, sarebbe avvenuta in totale violazione dei termini d’uso fissati da Facebook.
A sua difesa, la società Cambridge Analytica ha affermato di non avere infranto alcuna regola e di aver raccolto solamente dati con il consenso degli utenti per trattarli con metodologie già utilizzate da altri in precedenti campagne elettorali.
Davanti al Congresso degli Stati Uniti l’Amministratore Delegato di Facebook, Mark Zuckerberg, ha ammesso che i controlli attualmente messi a disposizione sono insufficienti e che è inevitabile introdurre nuove e più stringenti regole per il loro utilizzo.
Al di là di quello che sarà l’esito delle indagini, ancora incerto al momento in cui scriviamo, le inchieste del Guardian e del New York Times hanno avuto il merito di portare al centro del dibattito nuovi elementi relativi all’uso dei Big Data, moderando l’entusiasmo spesso eccessivo con il quale essi vengono considerati e portando alla luce al vasto pubblico i rischi connessi con un loro uso improprio e, quindi, la necessità di normative maggiormente restrittive sul loro utilizzo.
Negli ultimi anni l’Unione Europea ha certamente inasprito le regole, ma data la globalità del problema, è solo da un’azione coordinata di tutti i paesi che il problema potrà essere risolto in modo soddisfacente e così garantire un uso etico dei Big Data moderandone l’altrimenti sconfinato potere.